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7) 10 Buoni Motivi per visitare l’Umbria, il settimo: Sulle Orme dei grandi personaggi del passato

Un viaggio nella Regione per scoprire gli uomini e le donne che con la loro vita hanno fatto la storia dell’Umbria.  

Lasciati ispirare e guidare dalle opere di pittori indimenticabili, dai miracoli e dalle storie di santi famosi in tutto il mondo e anche tu diventerai parte di questa tradizione millenaria.

Un percorso trasversale lungo tutta la Regione che coinvolge sia grandi che piccini! Vi aspettiamo!

SAN FRANCESCO D’ASSISI

San Francesco d’Assisi nacque ad Assisi nel 1182 ca. e morì nel 1226

San_Francesco_predicazione_agli_animaliGiovanni Francesco Bernardone, figlio di un ricco mercante di stoffe, istruito in latino, in francese, e nella lingua e letteratura provenzale, condusse da giovane una vita spensierata e mondana; partecipò alla guerra tra Assisi e Perugia, e venne tenuto prigioniero per più di un anno, durante il quale patì per una grave malattia che lo avrebbe indotto a mutare radicalmente il suo stile di vita: tornato ad Assisi nel 1205,Francesco si dedicò infatti a opere di carità tra i lebbrosi e cominciò a impegnarsi nel restauro di edifici di culto in rovina, dopo aver avuto una visione di san Damiano d’Assisi che gli ordinava di restaurare la chiesa a lui dedicata.

Il padre di Francesco, adirato per i mutamenti nella personalità del figlio e per le sue cospicue offerte, lo diseredò; Francesco si spogliò allora dei suoi ricchi abiti dinanzi al vescovo di Assisi, eletto da Francesco arbitro della loro controversia.

Dedicò i tre anni seguenti alla cura dei poveri e dei lebbrosi nei boschi del monte Subasio. Nella cappella di Santa Maria degli Angeli, nel 1208, un giorno, durante la Messa, ricevette l’invito a uscire nel mondo e, secondo il testo del Vangelo di Matteo (10:5-14), a privarsi di tutto per fare del bene ovunque.

Tornato ad Assisi l’anno stesso, Francesco iniziò la sua predicazione, raggruppando intorno a sé dodici seguaci che divennero i primi confratelli del suo ordine (poi denominato primo ordine) ed elessero Francesco loro superiore, scegliendo la loro prima sede nella chiesetta della Porziuncola.

Nel 1210 l’ordine venne riconosciuto da papa Innocenzo III; nel 1212 anche Chiara d’Assisi prese l’abito monastico, istituendo il secondo ordine francescano, detto delle clarisse.

Intorno al 1212, dopo aver predicato in varie regioni italiane, Francescopartì per la Terra Santa, ma un naufragio lo costrinse a tornare, e altri problemi gli impedirono di diffondere la sua opera missionaria in Spagna, dove intendeva fare proseliti tra i mori.

Nel 1219 si recò in Egitto, dove predicò davanti al sultano, senza però riuscire a convertirlo, poi si recò in Terra Santa, rimanendovi fino al 1220; al suo ritorno, trovò dissenso tra i frati e si dimise dall’incarico di superiore, dedicandosi a quello che sarebbe stato il terzo ordine dei francescani, i terziari.

Ritiratosi sul monte della Verna nel settembre 1224, dopo 40 giorni di digiuno e sofferenza affrontati con gioia, ricevette le stigmate, i segni della crocifissione, sul cui aspetto, tuttavia, le fonti non concordano.

Francesco venne portato ad Assisi, dove rimase per anni segnato dalla sofferenza fisica e da una cecità quasi totale, che non indebolì tuttavia quell’amore per Dio e per la creazione espresso nel Cantico di frate Sole, probabilmente composto ad Assisi nel 1225; in esso il Sole e la natura sono lodati come fratelli e sorelle, ed è contenuto l’episodio in cui il santo predica agli uccelli.

Francesco, che è patrono d’Italia, venne canonizzato nel 1228 da papaGregorio IX.

Viene sovente rappresentato nell’iconografia tradizionale nell’atto di predicare agli animali o con le stigmate

 

SAN VALENTINO

San-Valentino-da-Terni-TuttArt@-1La più antica notizia di San Valentino è in un documento ufficiale della Chiesa dei secc.V-VI dove compare il suo anniversario di morte.

Ancora nel sec. VIII un altro documento ci narra alcuni particolari del martirio: la tortura, la decapitazione notturna, la sepoltura ad opera dei discepoli Proculo, Efebo e Apollonio, successivo martirio di questi e loro sepoltura.

Altri testi del sec. VI, raccontano che San Valentino, cittadino e vescovo di Terni dal 197, divenuto famoso per la santità della sua vita, per la carità ed umiltà, per lo zelante apostolato e per i miracoli che fece, venne invitato a Roma da un certo Cratone, oratore greco e latino, perché gli guarisse il figlio infermo da alcuni anni.

Guarito il giovane, lo convertì al cristianesimo insieme alla famiglia ed ai greci studiosi di lettere latine Proculo, Efebo e Apollonio, insieme al figlio del Prefetto della città.

Imprigionato sotto l’Imperatore Aureliano fu decollato a Roma.

Era il 14 febbraio 273.

Il suo corpo fu trasportato a Terni al LXIII miglio della Via Flaminia.

 

SANTA CHIARA D’ASSISI

Chiara nasce nel 1194 da una nobile famiglia d’Assisi, figlia di Favarone di Offreduccio di Bernardino e di Ortolana.

La madre, recatasi a pregare alla vigilia del parto nella Cattedrale di San Rufino, sentì una voce che le predisse la nascita della bambina con quest eparole :”Donna non temere, perchè felicemente partorirai una chiara luce che illuminerà il mondo”.

Per questo motivo la bambina fu chiamata Chiara e battezzata in quella stessa chiesa.

ùSi può senza dubbio affermare che una parte predominante della educazione di questa fanciulla è dovuta alla grande spiritualità che pervadeva l’ambiente familiare di Chiara ed in particolare la figura della madre che fu tra quelle dame che ebbero la grande fortuna di raggiungere la Terra Santa al seguito dei crociati.

L’esperienza della completa rinuncia e delle predicazioni di San Francesco, la fama delle doti che aveva Chiara per i suoi concittadini, fecero sì che queste due grandi personalità s’intendessero perfettamente sul modo di fuggire dal mondo comune e donarsi completamente alla vita contemplativa.

La notte dopo la Domenica delle Palme, il 18 marzo 1212, Chiara, accompagnata da Pacifica di Guelfuccio, si recherà di nascosto alla Porziuncola, dove era attesa da Francesco e dai suoi frati.

Qui Francesco la vestì del saio francescano, le tagliò i capelli consacrandola alla penitenza e la condusse presso le suore benedettine di San Paolo a Bastia Umbra, dove il padre inutilmente tentò di persuaderla a far ritorno a casa.

Chiara si rifugiò in seguito, su consiglio di Francesco, nella Chiesetta di San Damiano che divenne la Casa Madre di tutte le sue consorelle chiamate dapprima “Povere Dame recluse di San Damiano” e, dopo la morte di Chiara, Clarisse.

Qui visse per quarantadue anni, quasi sempre malata, iniziando alla vita religiosa molte sue amiche e parenti compresa la madre Ortolana e le sorelle Agnese e Beatrice.

Nel 1215 Francesco la nominò badessa e formò una prima regola dell’Ordine che doveva espandersi per tutta Europa.

La grande personalità di Chiara non passò inosservata agli alti prelati, tanto che il legato pontificio, Cardinale Ugolino, formulò la prima regola per i successivi monasteri e più tardi le venne concesso il privilegio della povertà con il quale Chiara rinunciava ad ogni tipo di possedimento.

La fermezza di carattere, la dolcezza del suo animo, il modo di governare la sua comunità con la massima carità e avvedutezza, le procurarono la stima dei Papi che vollero persino recarsi a visitarla.

La morte di Francesco e le notizie che alcuni monasteri accettavano possessi e rendite amareggiarono e allarmarono Chiara che sempre più malata volle salvare fino all’ultimo la povertà per il suo convento componendo una Regola simile a quella dei Frati Minori, approvata dal Cardinale Rainaldo (poi papa Alessandro IV) nel 1252 e alla vigilia della sua morte da Innocenzo IV, recatosi a San Damiano per portarle la benedizione e consegnarle la bolla papale che confermava la sua regola; il giorno dopo, 11 agosto 1253, Chiara muore, officiata dal Papa che volle cantare per lei non l’ufficio dei morti, ma quello festivo delle vergini.

Il suo corpo venne sepolto a San Giorgio ed in seguito trasferito nella chiesa che porta il suo nome.

Nonostante l’intenzione di Innocenzo IV fosse quella di canonizzarla subito dopo la morte, si giunse alla bolla di canonizzazione nell’autunno del 1255, dopo averne seguito tutte le formalità, per mezzo di Alessandro IV.

SANTA RITA DA CASCIA La prima parte della vita di santa Rita è piuttosto oscura, esistono fonti scritte piuttosto tarde, come la ricostruzione agiografica fatta da Agostino Cavallucci nel 1610.

santa-rita-da-casciaComunque la maggior parte delle biografie composte sui pochi dati certi concordano nel fatto che sia nata a Roccaporena, presso Cascia, e che il suo nome sia diminutivo di Margherita.

Studi incrociati e molteplici ricerche confermano come anno di morte il 1447.

Figlia unica di Antonio Lotti e Amata Ferri.

Entrambi i genitori sono descritti come persone molto religiose e “pacieri di Cristo” nelle lotte politiche e familiari tra guelfi e ghibellini.

Essi le insegnarono a leggere e a scrivere.

Le agiografie la descrivono come una ragazza mite che assecondava i desideri dei genitori.

Come era usanza del tempo, i matrimoni spesso venivano programmati già in giovanissima età, soprattutto quando l’età dei genitori cominciava ad essere elevata.

Così anche Rita, all’età di sedici anni, andò sposa a Paolo Mancini (detto anche Paolo di Ferdinando), ufficiale comandante la guarnigione di Collegiacone, descritto come uomo dal carattere molto orgoglioso, autoritario e discendente da una diramazione della nobile famiglia Mancini.

Ebbero due gemelli: Giangiacomo Antonio e Paolo Maria.

Rita si dedicò instancabilmente alla sua famiglia creando le premesse per la conversione di suo marito.

Proprio quando l’unione matrimoniale sembrava andare bene, Paolo Mancini fu ucciso, probabilmente per rancori passati, in piena notte mentre rincasava.

Credente fino in fondo, perdona gli assassini di suo marito ma si angoscia quando capisce che i suoi figli prendono la strada della vendetta.

Si affida allora alla preghiera, auspicando addirittura la loro morte fisica piuttosto che vederli responsabili di atti di violenza e quindi alla morte dell’anima.

Poco tempo dopo i due ragazzi si ammalano contemporaneamente e muoiono.

Per tre volte chiede inutilmente di entrare presso il monastero agostiniano di Santa Maria Maddalena a Cascia.

Il suo stato vedovile e forse anche le implicazioni dell’omicidio del marito potrebbero averle ostacolato l’ingresso in monastero.

Qui però si inserisce la leggenda devozionale che narra come in piena notte Rita sia stata portata in volo entro le mura del monastero da san Nicola da Tolentino e sant’Agostino.

Fatto è che dal 1407, dopo aver pacificato gli animi e riconciliato la famiglia di suo marito e quella dell’assassino, per quaranta anni Rita visse in monastero, dedicandosi alla preghiera.

Molti sono i segni soprannaturali che i credenti attribuiscono a Rita da Cascia: la sera del venerdì santo avrebbe ricevuto una spina dalla corona di Cristo conficcata sulla fronte.

La madre badessa rifiutò, in seguito a tale evento, la richiesta della santa di partire per Roma con le altre suore.

Però, il giorno prima di partire, la tradizione vuole che le stigmate sparirono e cosi Rita poté partire.

La spina fu portata da santa Rita per i suoi ultimi quindici anni.

Il giorno del battesimo sarebbero apparse api bianche sulla sua culla, api nere al suo letto di morte, una rosa rossa fiorita in inverno vicino a casa sua e due fichi sull’albero del suo giardino. Prima di morire mandò sua cugina a prenderli.

Alla sua morte, avvenuta il 22 maggio 1447, il suo corpo venne collocato in una cassa di pioppo chiamata codex miraculorum, eseguita da Cecco Barbari; soltanto nel 1462 viene realizzata la cassa solenne.

La venerazione di Rita da Cascia da parte dei fedeli iniziò subito dopo la sua morte e fu caratterizzata dal numero e dalla qualità di eventi prodigiosi riferiti alla sua intercessione, tanto che divenne “la santa degli impossibili”.

La sua beatificazione è del 1627, 170 anni dopo la sua morte, durante il pontificato di Urbano VIII Barberini, già vescovo di Spoleto.

Leone XIII, nel 1900, la canonizza come santa.

SAN BENEDETTO DA NORCIA

Benedetto nacque nella piccola città di Norcia verso il 480 d.C., in un periodo storico particolarmente difficile.

Quattro anni prima (476) era formalmente finito l’Impero Romano d’occidente con la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo.

download (4) Fu contemporaneo di Teodorico e ne vide fallire nel sangue l’ambizioso progetto di una pacifica convivenza con i Goti ed i Romani; poté assistere agli orrori della terribile guerra fra i Goti e i Bizantini per il predominio dell’Italia (535-553), guerra che lasciò desolato e spopolato il nostro paese tra stragi e pestilenze.

 Fu anche contemporaneo di Giustiniano e conobbe le pesanti interferenze dell’imperatore bizantino in materia religiosa, con la conseguente umiliazione dell’autorità papale.

 Studente a Roma, constatò di persona lo stato di grave decadenza in cui versava l’antica capitale dell’impero; da essa il giovane Benedetto fuggì via inorridito ritirandosi nel silenzio e nella preghiera nei boschi dell’alta valle dell’Aniene, ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo.

 Una comunità di monaci di Vicovaro lo volle come abate, ma l’esperimento fu un fallimento: ben presto quei monaci, preoccupati per l’eccessiva austerità e disciplina di Benedetto, tentarono di avvelenarlo.

 Dopo questa esperienza, egli intraprese una nuova forma di vita monastica: nella zona di Subiaco, sull’esempio di ciò che aveva fatto duecento anni prima in Egitto san Pacomio, organizzò un gruppo di monaci, suddiviso in dodici comunità di dodici monaci: ciascuna comunità aveva un proprio superiore, mentre Benedetto conservava la direzione generale.

L’invidia di un prete, che non gradiva l’accorrere della gente con ricchi doni ai piedi del santo, costrinse Benedetto ad abbandonare quei luoghi con il gruppo dei suoi discepoli più fidati.

Fra di essi vi erano giovani dell’aristocrazia romana, come Mauro e Placido figli di senatori, ma anche goti e figli di schiavi, gente umile e rozza: per tutti Benedetto era il maestro nella “scuola del divino servizio” (questa è la definizione che egli dà del monastero nella sua Regola).

Così Benedetto gettava le basi di una unità tra barbari e latini molto profonda, perché fondata sulla fratellanza universale insegnata dal Vangelo.

Allontanatosi da Subiaco, Benedetto si diresse a Cassino, sulla cui altura fondò, nel 529, il monastero di Montecassino destinato a diventare il più celebre in Europa.

Là avvenne la sua morte, tra il 543 ed il 555 d.C., in una data che l’antica tradizione ha fissato al 21 Marzo.

Due o tre decenni dopo la sua morte i longobardi attaccarono Montecassino e vi compirono la prima delle memorabili distruzioni che scandiscono, come tappe, la storia di quell’abbazia.

I monaci scampati al disastro si rifugiarono a Roma portando con sé il testo della “Regola”, quasi certamente autografo di san Benedetto.

Da loro stessi il papa san Gregorio Magno apprese la vita del grande santo e ce ne trasmise il racconto nel secondo libro dei suoi “Dialoghi” unica fonte storica in nostro possesso per conoscere la vita di San Benedetto.

La Regola benedettina con le sue esigenze di ordine, di stabilità, di sapiente equilibrio fra preghiera e lavoro, si impose ben presto a tutto il monachesimo occidentale e fu seguita in tutti i monasteri europei.

San Benedetto divenne così uno dei santi più popolari e venerati ed apparve a tutti come l’uomo suscitato da Dio per portare la pace là dove erano state seminate le distruzioni e la morte.

Divenuto il simbolo dell’ideale monastico, fu spontaneo attribuire a lui il merito di tutto ciò che il monachesimo, compreso quello pre-benedettino e quello extra-benedettino aveva compiuto a servizio della civiltà.

Così nel 1947, Pio XII lo chiamò “Padre dell’Europa” e il 24 ottobre 1964, in coincidenza con la consacrazione della basilica di Montecassino, ricostruita dopo la distruzione della seconda guerra mondiale, Paolo VI lo proclamò “patrono d’Europa“.

IL PERUGINO

Pietro di Cristoforo Vannucci, noto come il Perugino o come Pietro Perugino (Città della Pieve, 1450 circa – Fontignano, 1523), è stato un pittore italiano.

francescodelleopere1700 Svolse la propria attività soprattutto in Umbria, Marche, Firenze e Roma, inviò le sue opere a Lucca, Cremona, Venezia, Bologna, Ferrara, Milano e Mantova.

 Fuse insieme la luce e la monumentalità di Piero della Francesca con il naturalismo e i modi lineari di Andrea del Verrocchio, filtrandoli attraverso i modi gentili della pittura umbra.

 Nacque nel 1450 circa a Città della Pieve.

 La sua formazione, dopo un primo contatto con la realtà artistica perugina, avvenne, secondo quanto scrive Giorgio Vasari, con lo studio delle maggiori opere di Piero della Francesca, disseminate fra Umbria, Marche e Toscana.

 Nel 1472 si iscrisse alla Compagnia di san Luca a Firenze e iniziò la frequentazione della bottega del Verrocchio.

Datate al 1473 sono le otto tavolette, provenienti dall’Oratorio di San Bernardino, che formavano, a gruppi di quattro, le ante laterali di una nicchia con una statua del Santo.

Esse vennero realizzate a più mani, ma si può riconoscere comunque l’intervento del Perugino in due tavolette, le migliori qualitativamente: quella col Miracolo del bambino nato morto e quella con San Bernardino risana una fanciulla.

In esse l’architettura monumentale e decorata prevale sulle piccole figure umane, e la luce tersa e nitidissima deriva da Piero della Francesca.

Del 1475 circa è l’Adorazione dei Magi, conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, proveniente dalla Chiesa di Santa Maria dei Servi, legata quest’ultima alla famiglia Baglioni, in essa tende a fondere insieme sia il linguaggio di Piero della Francesca, riducendolo a modi più accattivanti e colloquiali sia il linearismo del Verrocchio, depurandolo dei suoi tratti nervosi ed espressionistici.

Datato al 1476 è l’affresco staccato, oggi nella Pinacoteca Comunale di Deruta, con il Padre Eterno con i santi Rocco e Romano.

Nel 1478 lavora agli affreschi della chiesa parrocchiale di Cerqueto, nei pressi di Perugia, ora rimangono solo frammenti, nel San Sebastiano, all’uso della linea, appreso a Firenze unisce un’illuminazione tersa, derivata da Piero della Francesca.

A questa fase appartengono varie ‘Vergini’ disseminate in numerosi musei europei molte delle quali per lungo tempo in passato erano state attribuite al Verrocchio.

In tutte si individua una mescolanza delle influenze a lui trasmesse dai suoi due maestri.

Lavora a Roma dal 1478, dove dipinge l’abside della cappella del coro della Basilica vaticana per papa Sisto IV, opera distrutta.

Nel 1481, viene chiamato sempre dal pontefice ad affrescare la finta pala d’altare nella parete di fondo della Cappella Sistina, con l’Assunta e il papa inginocchiato come committente, opera distrutta per far posto al Giudizio Universale di Michelangelo insieme ad altri suoi due riquadri sulla stessa parete, la Nascita e il Ritrovamento di Mosè e la Natività di Cristo.

Da questo momento fino al 1483 partecipa alla decorazione di tutta la Cappella accanto a Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, artisti fiorentini chiamati da Sisto IV, per le Storie di Cristo; sulla parete destra realizza la Consegna delle chiavi, lasciando al suo collaboratore il Pinturicchio la realizzazione delle scene con il Viaggio di Mosè in Egitto e il Battesimo di Cristo.

Per queste opere i pittori si attennero a comuni convenzioni rappresentative in modo da far risultare il lavoro omogeneo, quali una comune scala dimensionale, una comune struttura ritmica e una comune rappresentazione paesaggistica; utilizzarono inoltre, accanto ad un’unica gamma cromatica, le rifiniture in oro in modo da far risplendere le pitture con i bagliori delle torce e delle candele.

Successivamente, con l’allontanamento del Perugino, fu Luca Signorellia prenderne il posto.

Nell’affresco con la consegna gli apostoli e una folla di personaggi sono ai lati del gruppo centrale costituito dal Cristo che consegna le due chiavi a san Pietro inginocchiato.

La scena è inserita in una grande piazza con un tempio a pianta centrale al centro, simbolo dell’ebraismo, e due archi di trionfo ai lati, simbolo del paganesimo e ripresi dall’arco di Costantino; in secondo piano sono rappresentati gli episodi del pagamento del tributo, a sinistra e a destra della tentata lapidazione di Cristo, a cui si riferisce l’iscrizione sovrastante: “CONTURBATIO IESU CHRISTI LEGISLATORIS”.

Si crede di riconoscere nel personaggio sulla destra in primo piano e con il berretto nero l’autoritratto del Perugino.

perugino-2006-01Nel 1485 per il gran prestigio di cui godeva fu nominato cittadino onorario di Perugia da cui il suo soprannome.

La sua attività fu frenetica nell’ultimo periodo della sua vita, tanto che aprì due botteghe sia a Firenze che a Perugia.

Le sue composizioni pacate e solenni, ottennero un grande successo, in quanto rispondevano nel modo più adeguato alle pratiche di visualizzazione interiore dei manuali di orazione, diffusissimi alla fine del quattrocento, questi richiedevano come supporto immagini con figure e luoghi non troppo caratterizzati, per permettere al devoto di dare lui un volto e un luogo preciso alla scena sacra che visualizzava internamente; questo portò il Perugino a costruite figure con espressioni indefinite inserite su sfondi paesaggistici allo stesso modo indefiniti, risultato accentuato dall’uso di una gamma cromatica ricca ma soffusa.

Per la città di Firenze eseguì, nel 1493, la Madonna che appare a San Bernardo, conservata a Monaco alla Alte Pinakothek; nel 1494 il ritratto di Francesco delle Opere, ora agli Uffizi; nel 1495 o nel 1500 la tavoletta con Apollo e Dafni, conservata al Louvre.

Quest’ultima nasce dal clima culturale della corte neoplatonica creatosi attorno al Magnifico, dove l’arte si distacca dalla vita civica e ripiega su temi mitologici e allegorici, fruibili solo da un pubblico di specialisti.

La tavoletta in passato è stata identificata come un Apollo e Marsia, ma più probabilmente si tratta di Dafni, che in greco vuol dire Lauro, e sarebbe quindi un’allusione al nome del committente Lorenzo e alla sua vocazione alla arti e alla musica patrocinate da Apollo.

Le figure, immerse in un paesaggio di pacata armonia, sono dolcemente tornite, e se l’Apollo si rifà all’Hermes di Prassitele, Dafni si rifà all’Ares di Lisippo.

Nel 1495 realizza il Compianto su Cristo Morto, ora agli Uffizi; tra il 1495 e il 1496 la Crocifissione ad affresco nella chiesa di Santa Maria Maddalena dei Pazzi; nel 1500 la Pala di Vallombrosa, ora alla Galleria dell’Accademia, e tra il 1505 e il 1507 il polittico dell Annunziata ora alla Galleria dell’Accademia di Firenze.

Per Perugia eseguì, tra la fine del 1495 e il 1496, la Pala dei Decemviri, detta così perché realizzata su commissione dai Decemviri di Perugia per la cappella del Palazzo Pubblico.

La cimasa con Cristo nel sepolcro si trova alla Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia.

Nella tavola, al centro, è la Madonna col Bambino in trono con ai lati i santi Lorenzo, Ludovico di Tolosa, Ercolano e Costanzo.

Nel 1496 completa il Polittico di San Pietro, opera smembrata nel 1591, in seguito alla distruzione della chiesa: al centro era l’ Ascensione con la Vergine, gli Apostoli e Angeli; come cimasa Dio in gloria, nella predella le tavole con l’ Adorazione dei Magi, il Battesimo di Cristo, la Resurrezione e due pannelli con i Santi protettori di Perugia.

Infine, sulle basi delle colonne che fiancheggiavano l’ Ascensione erano collocati sei pannelli con Santi benedettini tra cui san Benedetto, santa Flavia e san Placido, queste ultime tre tavolette conservate ai Musei Vaticani; nel 1498 lavorò alla decorazione della Sala dell’Udienza nel Collegio del Cambio a Perugia, ciclo terminato nel 1500 con largo intervento di aiuti.

Il tema del ciclo è la concordanza fra sapienza pagana e sapienza cristiana, tema elaborato dall’umanista Francesco Maturanzio. Sulle pareti sono raffigurati la Trasfigurazione, la Natività, l’Eterno tra angeli sopra un gruppo con profeti e sibille, La Prudenza e la Giustizia sopra sei savi antichi e La Fortezza e la Temperanza sopra sei eroi antichi, nella volta tra tondi dispone allegorie dei pianeti tra decorazioni a grottesche, tra il 1510 e il 1520 il Polittico di Sant’Agostino e tra il 1503 e il 1504 lo Sposalizio della Vergine per la cappella del Sant’Anello in Duomo.

Di questi anni è l’amicizia che intrattiene col giovane pittore Raffaello Sanzio. Per Isabella d’Este, realizza la Lotta tra Amore e Castità nel 1505, tavola per lo studiolo della marchesa nel Castello di San Giorgio a Mantova.

Del 1508 è la decorazione della volta della stanza dell’Incendio di Borgo in Vaticano, commissionata da papa Giulio II, nei quattro tondi sono inseriti la Santissima Trinità, il Creatore in trono tra angeli e cherubini, Cristo come Sol Iustitiae e Cristo tentato dal demonio, Cristo tra la Misericordia e la Giustizia.

A partire da questa data lavora a Perugia e nei dintorni con un progressivo impoverimento dello stile, e ripetendo le sue composizioni di maggior successo.

Morì nel 1523 a Fontignano (frazione del Comune di Perugia).

PINTURICCHIO

Pinturicchio o Pintoricchio nome d’arte di Bernardino di Betto (Perugia, 1454 – Siena, 1513) è stato un pittore italiano, allievo del Perugino.

images (6) Datate 1473 sono le due tavolette con Storie di san Bernardino: la Guarigione del paralitico e Liberazione del prigioniero probabilmente su impostazione del giovane Perugino, a cui il Pinturicchio aggiunse costumi ed elementi paesistici pittoreschi.

 Partecipò alla decorazione della Cappella Sistina a Roma, come aiutante del Perugino, eseguendo gli affreschi, impostati da quest’ultimo, con Viaggio di Mosè e Battesimo di Cristo.

Nel 1486 eseguì gli affreschi con Storie di san Bernardino nella Cappella Bufalini della chiesa romana dell’Aracoeli, successivi sono gli affreschi della Cappella del Presepio in Santa Maria del Popolo a Roma.

Tra il 1492 e il 1494 eseguì, in collaborazione con Antonio del Massaro da Viterbo, detto il Pastura, la decorazione dell’Appartamento Borgia in Vaticano, dove prevaleva il gusto per una decorazione sovraccarica con dorature e grottesche, con temi più e meno tradizionali: oltre a Profeti, Sibille, Virtù, Arti Liberali e Scene della vita di Cristo, di Maria e dei Santi, vengono inserì motivi paganeggianti, tratti dalla mitologia, volte a celebrare in modo allegorico il committente.

Fritz Saxl ne parla in questo modo: “Eppure non esiste forse in questo periodo nessun’altra opera in cui il paganesimo e l’orgoglio individuale abbiano potuto manifestarsi con altrettanta nettezza che nell’appartamento Borgia”.

Dal 1495 lavorò alla Pala di Santa Maria dei Fossi, (opera oggi conservata presso la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia).

Nel 1501 affrescò con le Storie di Maria la cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore di Spello in cui dipinse un suo autoritratto.

Nel 1497 ha realizzato gli affreschi della Cappella Eroli nel Duomo di Spoleto commissionati dal Vescovo Costantino Eroli (Madonna con Bambino con santi e nella lunetta sormontata dallo stemma degli Eroli Dio benedicente con angeli e arcangeli).

Traccia del passaggio dell’artista a San Gimignano è la pala d’altare con la Madonna in gloria tra san Benedetto e san Gregorio, realizzata nei primissimi anni del Cinquecento e che oggi possiamo ammirare nel Museo Civico di quella città.

La tavola, di fattura assai pregevole, presenta la Madonna racchiusa entro una mandorla composta da testine di Angeli osannanti.

In primo piano, inginocchiati, con lo sguardo rivolta alla Vergine, vediamo, sulla destra san Gregorio e sulla sinistra san Benedetto.

Dal 1505 lavorò alla decorazione della Libreria Piccolomini presso il Duomo di Siena, con l’ Incoronazione di Pio II e Storie di Pio II, per alcune di queste si valse della collaborazione del giovane Raffaello, suo è il cartone con la Partenza di Enea Silvio Piccolomini per il concilio.

Nel mosaico pavimentale è la scena allegorica con La via della Virtù, in alto è, fra i filosofi antichi Socrate e Crates, che getta in mare oro e gioielli, la figura allegorica della Sapienza, in basso è la stretta via della Virtù, percorsa da vari personaggi, sulla destra è la Fortuna, in equilibrio instabile, con un piede su una sfera e uno su una barca, caratterizzata da una cornucopia, simbolo dell’abbondanza e da una vela, appartenente all’albero spezzato della nave, su cui poggia un piede, e simbolo di successo infelice.

Intorno al 1509 lavora agli affreschi del presbiterio di Santa Maria del Popolo a Roma.

Morì nel 1513, ricco, ma in solitudine, abbandonato dalla moglie fedifraga e dimenticato dai cinque figli.

Fu sepolto a Siena, nell’Oratorio dei Santi Vincenzo e Atanasio.

GIOTTO

giotto Giotto di Bondone nacque da una famiglia di contadini nel 1267 che, come molte altre, si era inurbata a Firenze e, secondo la tradizione  letteraria, finora non confermata dai documenti, aveva affidato il figlio alla bottega di un pittore, Cenni di Pepi, detto Cimabue, iscritto alla  potente Arte della Lana, che abitava nella parrocchia di Santa Maria Novella.

 Dovrebbe essere solo una leggenda l’aneddoto della “scoperta” del giovane pittore da parte di Cimabue, mentre disegnava con estremo  realismo le pecore a cui badava, riportata da Lorenzo Ghiberti e da Giorgio Vasari.

 Sul fatto che Cimabue sia stato maestro di Giotto ci sono solo indizi di tipo stilistico: la collaborazione nella bottega del maestro fiorentino  avrebbe però consentito a Giotto di seguirlo a Roma nel 1280 circa, dove era presente anche Arnolfo di Cambio, e avrebbe potuto  successivamente introdurlo nel cantiere di Assisi.

 Giotto si sposò verso il 1287 con Ciuta (Ricevuta) di Lapo del Pela, dalla quale ebbe quattro figlie e quattro figli, dei quali uno, Francesco,  divenne pittore.

La Madonna di San Giorgio alla Costa La prima tavola dipinta indipendentemente da Giotto in ordine cronologico è probabilmente la Madonna col Bambino di San Giorgio alla Costa (Firenze, oggi al Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte), che potrebbe essere anteriore agli affreschi di Assisi.

Per altri studiosi, invece, si tratterebbe di un’opera successiva al cantiere di Assisi ed anche alla Croce di Santa Maria Novella.

Questa opera mostra una solida resa della volumetria dei personaggi le cui attitudini sono più naturali che in passato; il trono è inserito in una prospettiva centrale, formando quasi una “nicchia” architettonica, che suggerisce un senso della profondità.

La novità del linguaggio di questa tavola, relativamente piccola e decurtata lungo tutti i margini, si comprende meglio facendo un raffronto con gli esempi fiorentini di Maestà che lo avevano immediatamente preceduto, come Coppo di Marcovaldo e Cimabue.

La Basilica di San Francesco di Assisi era stata completata nel 1253, con grandi interessi sia dei francescani, quale sede centrale dell’ordine, luogo di sepoltura del fondatore e meta di pellegrinaggio, sia del papato, che vedeva nei francescani dei fedeli alleati per rinsaldare il legame con i ceti più umili.

L’inizio della decorazione ad affresco non è conosciuto, per la distruzione degli antichi archivi nel XIX secolo, ma dovrebbe risalire agli anni tra il 1280 e il 1290.

Gli artisti, scelti direttamente dai papi, iniziarono dalla Basilica superiore.

Le Storie di Isacco I primi affreschi vennero realizzati nel transetto dalla bottega di Cimabue dove molto probabilmente doveva trovarsi anche il giovane Giotto.

La sua mano, in particolare, è probabile in due scene nella parte alta della navata con le Storie di Isacco (Isacco benedice Giacobbe e Isacco che scaccia Esaù che si trovano nella terza campata all’altezza della finestra), genericamente attribuite a un Maestro di Isacco, che aveva una particolare predisposizione alla resa volumetrica dei corpi, tramite un accentuato chiaroscuro, e che era capace di ambientare le proprie scene in un ambiente architettonico fittizio, disegnato secondo una prospettiva ed uno scorcio laterale basati sugli studi matematico prospettici in voga al tempo ed insegnati a Viterbo, alla corte pontificia, ove furono importati all’inizio del XIII secolo dai Maestri arabi.

Diversa è anche la tecnica usata: per la prima volta si usò l’affresco a giornate, anziché a pontate.

Alcuni indicano il Maestro di Isacco anche nelle figure del romano Pietro Cavallini o dello scultore Arnolfo di Cambio, gli unici che avessero mostrato di saper esprimere in maniera credibile i valori di volume e di coerenza spaziale nelle loro opere.

In seguito, la fascia inferiore della navata venne occupata dalle ventotto Storie di San Francesco databili tra l’ultimo decennio del XIII secolo ed i primi anni del XIV, un ciclo grandioso che stupì i contemporanei e segnò una svolta nella pittura occidentale.

Il ciclo illustra puntualmente il testo della Legenda compilata da san Bonaventura e da lui dichiarata unico testo ufficiale di riferimento per la biografia francescana.

Sotto ad ogni scena compariva (con il tempo si e’ quasi del tutto cancellata) una didascalia descrittiva tratta dai diversi capitoli della Legenda via via illustrati.

Questo ciclo è da alcuni considerato l’inizio della modernità e del dipingere latino.

La tradizione iconografica sacra, infatti, poggiava sulla tradizione degli iconografi greci, e quindi su un repertorio iconografico molto codificato nei secoli; il soggetto attuale (un santo moderno) e un repertorio di episodi straordinari (solo per fare un esempio: nessuno mai, prima di san Francesco, aveva ricevuto le stigmate) fecero sì che Giotto negli affreschi dovesse creare ex-novo modelli e figure, attingendo solo in parte ai modelli di pittori che si erano già cimentati in episodi francescani su tavola (come Bonaventura Berlinghieri o il Maestro del San Francesco Bardi).

Accanto a ciò va registrato il nuovo corso degli studi biblici (portati avanti proprio dai teologi francescani e domenicani) che prediligeva la lettura dei testi nel loro senso letterale (senza troppi simbolismi e rimandi allegorici) desiderando condurre il fedele ad un incontro il più possibile vivo ed immedesimativo con il testo sacro.

Ciò favorì la scelta di rappresentazioni in abiti moderni e che sottolineassero l’espressione del vissuto.

MCR-scrovegni-vlIl primo capolavoro fiorentino è la grande Croce di Santa Maria Novella, citata come opera giottesca in un documento del 1312 da tale Ricuccio di Puccio del Mugnaio e anche dal Ghiberti, ma probabilmente databile attorno al 1290 contemporaneo, quindi, alle Storie di San Francesco della Basilica Superiore.

È il primo soggetto che Giotto affronta in maniera rivoluzionaria, in contrasto con l’iconografia ormai canonizzata da Giunta Pisano del Christus patiens inarcato sinuosamente a sinistra.

Giotto invece dipinse il corpo morto in maniera verticale, con le gambe piegate che ne fanno intuire tutto il peso.

La forma non più nobilitata dai consueti stilemi divenne così assolutamente umana e popolare.

In queste novità è contenuto tutto il senso della sua arte e della nuova sensibilità religiosa che restituisce al Cristo la sua dimensione terrena e da questa trae il senso spirituale più profondo.

Solo l’aureola ricorda la sua natura divina, ma mostra le sembianze di un uomo umile realmente sofferente, con il quale l’osservatore potesse confrontare le sue pene.

In quegli anni Giotto era già un pittore affermato, capace di creare una schiera di imitatori in città, pur rappresentando soltanto l’anticipatore di una corrente d’avanguardia che si impose più tardi.

Il contesto toscano e fiorentino dell’epoca era animato da grandi fermenti innovativi, che influenzarono Giotto: a Pisa la bottega di Nicola Pisano e poi del figlio Giovanni aveva cominciato un percorso di recupero della pienezza della forma e dei valori dell’arte classica aggiornata con influssi gotici transalpini, mentre Siena, in contatto privilegiato con molti centri culturali europei, aveva visto l’innesto di novità gotiche sulla tradizione bizantina nella pittura di un artista del calibro di Duccio di Buoninsegna.

Di precoce datazione è considerata anche la tavola firmata proveniente da Pisa e conservata al Louvre di Parigi, raffigurante le Stigmate di San Francesco in cui le storie della predella sono direttamente riprese dalle scene assisiati: questo da taluni viene considerato motivo a sostegno della attribuzione del Ciclo francescano a Giotto.

Secondo viaggio a Roma Fino al 1300 c’è un vuoto di alcuni anni nella produzione di Giotto.

Alcuni critici hanno ipotizzato che potesse essere chiamato a Roma dai Papi, magari desiderosi di altre opere dell’artista dopo le realizzazioni ad Assisi, soprattutto in occasione del giubileo del 1300 indetto da Papa Bonifacio VIII.

Quindi può darsi che Giotto abbia lavorato a Roma tra il 1297 e il 1300, esperienza della quale non rimangono tracce significative e, per questo, non è possibile ancora giudicare la sua influenza sui pittori romani, o al contrario, quanto il suo stile venne influenzato dalla scuola romana.

Nella basilica di San Giovanni in Laterano è conservato, tuttavia, un piccolo frammento di un ciclo ben più vasto, forse riferibile a Giotto, da questo soggiorno a quello successivo.

Rientro a Firenze Da documenti catastali del 1301 e 1304 si conoscono le sue proprietà in Firenze, che erano cospicue e per questo si ipotizza che, all’incirca verso i trent’anni, Giotto fosse già a capo di una bottega capace di ovviare alle più prestigiose commissioni del tempo.

images (7) In questo periodo dipinse il polittico (Galleria degli Uffizi) e, in virtù della fama diffusa in tutta l’Italia, venne chiamato a lavorare  a Rimini e Padova.

 La presenza di Giotto a Rimini non è databile con precisione ma si presume possa essere collocata tra gli anni di Padova ed il  ritorno ad Assisi, prima o dopo il soggiorno padovano.

Sicuramente anteriore al 1309, viene collocato circa al 1303. A Rimini, come ad Assisi, lavorò in un contesto francescano, nella chiesa già di san Francesco, oggi nota come Tempio Malatestiano, dove dipinse un ciclo di affreschi perduto, mentre resta ancora nell’abside la Croce.

Confrontando il dipinto con le altre croci di Giotto (prime fra tutti la vicina Croce nella Cappella degli Scrovegni) appare chiaro come siano mancanti la cimasa e terminali(o capi croce), ritrovate invece da Federico Zeri nel 1957 nella collezione Jeckyll di Londra.

L’autografia della Croce non è condivisa da tutti gli studiosi: pur mostrando le qualità tipiche della sua pittura, potrebbe trattarsi di un’opera di bottega come molte uscite con la sua firma e dipinta da un suo disegno.

Il soggiorno di Rimini è importante, soprattutto, per l’influenza esercitata sulla locale scuola pittorica e miniatoria detta appunto scuola riminese, che ebbe tra i maggiori esponenti Giovanni e Pietro da Rimini.

Proprio da una Croce di Giovanni, visibilmente derivata da Giotto e dalla sicura datazione al 1309, si è potuto porre il limite massimo alla presenza di Giotto in città.

Del soggiorno padovano sono perduti gli affreschi della Basilica di Sant’Antonio e del Palazzo della Ragione che furono però realizzati in un secondo soggiorno.

Gli affreschi residui della Basilica di Sant’Antonio (Stigmate di San Francesco, Martirio di Francescani a Ceuta, Crocifissione e Teste di Profeti) sono, per quel poco che è possibile intuire, frutto del lavoro dei collaboratori e molto simili tecnicamente a quelli della successiva Cappella della Maddalena della Basilica inferiore di Assisi.

Gli affreschi perduti del Palazzo della Ragione, terminato nel 1309, sono citati in un libello del 1350, la Visio Aegidii Regis Patavi del notaio Giovanni da Nono, che li descrive con toni entusiastici, testimoniando che il soggetto astrologico del ciclo era tratto da un testo molto diffuso nel XIV secolo, il Lucidator, che spiegava i temperamenti umani in funzione degli influssi degli astri.

Padova era al tempo un centro universitario culturalmente molto fervido, luogo d’incontro e di confronto tra umanisti e scienziati e Giotto è partecipe di questa atmosfera.

Anche i pittori dell’Italia del nord subirono l’influenza di Giotto: Guariento, Giusto de’ Menabuoi, Jacopo Avanzi e Altichiero fusero infatti il suo linguaggio plastico e naturalistico con le tradizioni locali.

Resta invece intatto il ciclo di affreschi con Storie di Anna e Gioacchino, di Maria, di Gesù, Allegorie dei Vizi e delle Virtù e Il Giudizio Universale della Cappella di Enrico Scrovegni dipinta tra il 1303 e il 1305.

L’intero ciclo è considerato un capolavoro assoluto della storia della pittura e, soprattutto, il metro di paragone per tutte le opere di dubbia attribuzione giottesca, visto che sull’autografia del maestro fiorentino in questo ciclo non ci sono dubbi.

Gli affreschi della Cappella dell’Arena di Padova sono fondamentali per la conoscenza dell’arte giottesca perché sono quelli in cui l’autografia e la datazione sono certe e dove il ricorso agli aiuti è limitato all’esecuzione delle idee del maestro.

Nella Cacciata di Gioacchino dal tempio si riscontrano alcuni elementi tipici dell’arte di Giotto: ambientazione architettonica in prospettiva intuitiva, nella quale si dispongono i personaggi, resa delle figure umane realistica e non stilizzata, eloquenza di gesti e espressioni, vivace narrazione, solennità senza fronzoli della composizione, presenza di linee di forza che guidano l’occhio dell’osservatore.

Enrico Scrovegni nobile patavino acquistò il terreno nel 1300, nel 1302 cominciò la costruzione della cappella che si trovava a ridosso del palazzo di famiglia poi distrutto.

Nel 1304 il Papa Benedetto XI promulgava un’indulgenza in favore di coloro che l’avessero visitata.

L’edificio fu consacrato proprio nel 1305 e presumibilmente gli affreschi dovevano essere ormai terminati per quella data. Giotto dipinse l’intera superficie con un progetto iconografico e decorativo unitario, ispirandosi alla “leggenda Aurea” di Jacopo da Varazze e alle Meditazioni sulla vita di Gesù dello Pseudo-Bonaventura.

Dipinse, dividendolo in 37 scene, un ciclo incentrato sul tema della salvezza che parte dalla storia di Gioacchino ed Anna e prosegue con quelle di Maria e Gesù lungo le pareti e termina col Giudizio Universale della controfacciata.

Sullo zoccolo in basso alcuni specchi in finto marmo si alternano a figure monocrome simboleggianti i Vizi e le Virtù.

Nella cappella, la pittura di Giotto dimostrò una piena maturità espressiva: la composizione rispettava il principio del rapporto organico tra architettura e pittura ottenendo il risultato di un complesso unitario, i riquadri sono tutti di identica dimensione, i partimenti decorativi, le architetture simulate ed i due finti coretti prospettici che simulano un’apertura sulla parete, sono tutti elementi che obbediscono ad una visione unitaria, non solo prospettica ma anche cromatica; domina infatti il blu intensissimo della volta che si ripete in ogni scena.

Rispetto agli affreschi di Assisi si notano molti progressi: le figure sono solide e voluminose e rese ancora più salde dalle variazioni cromatiche, i toni dei colori si schiariscono nelle zone sporgenti.

Alcuni accorgimenti tecnici arricchiscono di effetti materici tutto l’ambiente: Stucco lucido o stucco romano fu usato per i finti marmi; Parti metalliche furono inserite nell’aureola del Cristo Giudice nel Giudizio; Alcune tavole lignee furono inserite nel muro; Venne usato l’encausto nelle figure a finto rilievo.

Ci sono numerose citazioni dall’arte classica e dalla scultura gotica francese, incentivata dal confronto con le statue sull’altare di Giovanni Pisano, ma, soprattutto, una maggiore espressività negli sguardi intensi dei personaggi e nella loro gestualità.

Lo stile di Giotto si evolse tramite la ricerca di una pittura capace di rendere l’umanità dei personaggi sacri.

Tra i brani più suggestivi ci sono gli ambienti naturali e le architetture costruite come vere e proprie scatole prospettiche, che a volte vengono ripetute per non contraddire il rispetto dell’unità di luogo, come la casa di Anna, o il Tempio la cui architettura è ripetuta identica anche se ripresa da diverse angolature.

Molte sono le notazioni narrative ed i particolari, anche minori, di grande suggestione, gli oggetti, gli arredi le vesti che rispecchiano l’uso, la moda del tempo.

Alcuni personaggi sono veri e propri ritratti a volte caricaturali che danno il senso della trasposizione cronachistica della vita reale nella rappresentazione sacra.

Nel Museo civico di Padova è conservato una Croce dipinta proveniente dall’altare della cappella degli Scrovegni, raffinatissima per la ricchezza decorativa dei colori smaltati e per l’andamento sagomato del supporto dal disegno gotico, oltre che per il realismo nella figura del Cristo e nell’atteggiamento sofferente di Maria e di San Giovanni nei tabelloni laterali.

download (3)Tra il 1306 ed il 1311 fu di nuovo ad Assisi per eseguire gli affreschi della zona del transetto della Basilica inferiore che comprendono: le Storie della Vita di Cristo, le Allegorie francescane sulle vele, e la Cappella della Maddalena.

In realtà la mano del maestro è quasi assente e per le numerose commissioni lasciò la stesura a personalità della sua cerchia.

La commissione fu del Vescovo Teobaldo Pontano in carica dal 1296 al 1329, e il lavoro si protrasse per molti anni coinvolgendo numerosi aiuti: Parente di Giotto, Maestro delle Vele e Palmerino di Guido (quest’ultimo citato assieme al maestro in un documento del 1309 in cui s’impegna a pagare un debito).

La seconda presenza di Giotto nella città umbra inizierebbe nel 1305-1306 e durerebbe fino al 1311 cioè dopo il soggiorno padovano per dipingere la Cappella della Maddalena dove è ritratto il committente Teobaldo Pontano vescovo dal 1296 al 1329.

La storia è tratta dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze; per la Maddalena i Francescani avevano un culto particolare.

Giotto trasportò ad Assisi i progressi fatti a Padova, nelle soluzioni scenografiche e nella spazialità, nella tecnica e, soprattutto, nella qualità dei colori chiari e caldi.

Agli episodi della vita di Maddalena vennero aggiunti quelli di Marta e di Lazzaro.

Le Allegorie Francescane occupano le vele della volta del transetto: Povertà, Castità, Obbedienza, la Gloria di San Francesco e le scene del ciclo della Vita di Cristo sono disposte lungo le pareti e le volte del transetto destro.

Un documento del 4 giugno del 1309 testimonia la presenza dell’artista in città insieme all’aiuto Palmerino di Guido ma i collaboratori erano sicuramente numerosi viste le dimensioni dell’impresa.

La vivacità delle scene, le soluzioni scenografiche e spaziali di ampio respiro ed alcune citazioni dirette del ciclo padovano hanno messo d’accordo studiosi e critici sull’appartenenza del progetto generale degli affreschi a Giotto, ma la realizzazione pittorica fu delegata ai membri della bottega, le cui identità sono ancora celate dietro nomi come Parente di Giotto, Maestro delle Vele e Maestro della Cappella di San Nicola, Maestro Espressionista di Santa Chiara.

Alcuni di questi seguaci, probabilmente umbri, diffusero lo stile giottesco nelle chiese della zona.

Nel 1311 era già tornato a Firenze, ci sono anche documenti del 1314 relativi alle sue attività economiche extra pittoriche.

La presenza a Firenze è sicuramente documentata negli anni 1314, 1318, 1320, 1325, 1326 e 1327.

Nel 1327, in particolare, si iscrisse all’Arte dei Medici e Speziali che, per la prima volta, accoglieva i pittori.

Nel 1313, in una lettera, incaricò Benedetto di Pace di recuperare le masserizie presso la proprietaria della casa affittata Roma; il documento è la testimonianza del terzo soggiorno romano, avvenuto entro l’anno in cui eseguì il Mosaico della Navicella degli Apostoli per il portico dell’antica Basilica di San Pietro in Vaticano su commissione del Cardinale Jacopo Caetani Stefaneschi, arciprete e benefattore della Basilica oltre che Diacono di San Giorgio al Velabro, che lo pagò ben duecento fiorini e, per l’occasione, compose dei versi da inserire nel mosaico.

La lunetta della Navicella doveva fare parte di un ciclo musivo più ampio.

La lunetta venne ampiamente rifatta e oggi parrebbe originale dell’epoca di Giotto solo un angelo.

Una copia fu disegnata da due artisti del Quattrocento, Pisanello e Parri di Spinello, e si trova al Metropolitan Museum of Art di New York.

Due tondi con i volti di angeli, facenti parte del ciclo, sono conservati rispettivamente: alla chiesa di San Pietro Ispano di Boville Ernica (Frosinone) e nelle Grotte vaticane.

Dai disegni, fatti prima della sua distruzione, si può ricostruire la composizione: raffigurava la barca degli apostoli in piena tempesta, sulla destra Pietro salvato da Cristo mentre a sinistra si vedeva una città turrita.

Il soggetto era ispirato da opere tardo-antiche e paleocristiane, che Giotto aveva avuto sicuramente occasione di vedere a Roma, alimentando un rapporto di dialogo continuo col mondo classico.

I due tondi sono realizzati con una tecnica identica a quella delle botteghe romane della fine del duecento e, probabilmente, sono opera di maestranze locali che eseguirono i cartoni dell’artista fiorentino il cui stile è riconoscibile dalla solidità del modellato dall’aspetto monumentale delle figure.

Roma fu una parentesi in un periodo nel quale Giotto risiedette soprattutto a Firenze.

In questo periodo dipinse le opere della sua maturità artistica come la Maestà di Ognissanti, la Dormitio Virginis della Gemäldegalerie di Berlino, la Croce di Ognissanti.

Nella Dormitio Virginis riuscì ad innovare un tema ed una composizione antica grazie alla disposizione dei personaggi nello spazio.

Il Crocifisso di Ognissanti, ancora in loco, fu dipinto per gli Umiliati ed è simile alle analoghe figure di Assisi tanto che si è pensato al cosiddetto Parente di Giotto.

La Maestà degli Uffizi va confrontata con due celebri precedenti di Cimabue e Duccio di Boninsegna, nella stessa sala del Museo, per comprenderne la modernità di linguaggio.

Il trono di gusto gotico in cui si inserisce la figura possente e monumentale di Maria è disegnato con una prospettiva centrale, la Vergine è accerchiata da una schiera di Angeli e da quattro santi che si stagliano evidenziandosi plasticamente dal fondo oro.

Nel 1318, secondo quanto attesta Ghiberti, cominciò a dipingere quattro cappelle ed altrettanti polittici per quattro diverse famiglie fiorentine nella chiesa dei francescani di Santa Croce: la Cappella Bardi (Vita di San Francesco), la Cappella Peruzzi (Vita di San Giovanni Battista e di San Giovanni Evangelista più il polittico con Taddeo Gaddi), e le perdute Cappelle Giugni (Storie degli Apostoli) e Tosinghi Spinelli (Storie della Vergine) di cui rimane l’ Assunta del Maestro di Figline.

Di queste cappelle tre erano situate nella zona alla destra della cappella centrale e una in quella alla sinistra: restano solo le prime due a destra: le Cappelle Bardi e Peruzzi.

Giotto_di_Bondone_051La Cappella Peruzzi, con gli affreschi della Vita di San Giovanni Battista e di San Giovanni Evangelista, ebbe una grande considerazione anche nel Rinascimento; lo stato di conservazione attuale è fortemente compromesso da diversi fattori succedutisi nel tempo, ma non impedisce di vedere la qualità delle figure rese plasticamente da un attento uso del chiaroscuro e caratterizzate dallo studio approfondito dei problemi di resa e rappresentazione spaziale.

I brani più suggestivi sono le stupende architetture degli edifici contemporanei dilatati in prospettiva che continuano, anche, oltre le cornici delle scene fornendo un’istantanea dello stile urbanistico del tempo di Giotto.

All’interno di queste quinte prospettiche, si sviluppano le storie sacre composte in maniera calibrata nel numero e nel movimento dei personaggi.

Le architetture sono inoltre disposte in maniera più espressiva, con vivi spigoli che forzano alcune caratteristiche delle scene.

Si nota un’evoluzione dello stile di Giotto, con panneggi ampi e debordanti come mai visto prima che esaltano la monumentalità delle figure.

La sapienza compositiva di Giotto divenne motivo di ispirazione per artisti successivi come ad esempio Masaccio per gli affreschi della Cappella Brancacci nella Chiesa del Carmine (che copiò per esempio i vecchioni nella scena della Resurrezione di Drusiana) e Michelangelo ben due secoli dopo, che ne copiò varie figure.

Dalla stessa cappella proviene il Polittico Peruzzi che fu smembrato e disperso in diverse collezioni fino al ricongiungimento nell’attuale collocazione presso il Museum of Art di Raleight (North Carolina) che rappresenta la Madonna con figure di Santi tra cui i due Giovanni e San Francesco, lo stile figurativo è simile a quello della cappella anche se i santi sono inseriti in un contesto neutro e non ricco di elementi decorativi ma, comunque, molto saldi nella loro volumetria.

L’altra Cappella di Santa Croce è la Bardi che narra episodi della Vita di San Francesco e figure di Santi francescani.

Fu stata recuperata nel secolo scorso dopo uno scialbo operato nel Settecento ed è interessante notare le differenze stilistiche con l’analogo ciclo assisiano di più di 20 anni prima, a fronte di un’iconografia sostanzialmente identica.

Giotto preferì dare maggiore importanza alla figura umana, accentuandone i valori espressivi, probabilmente, per assecondare la svolta in senso pauperistico dei Conventuali operata in quegli anni.

Il santo appare insolitamente imberbe in tutte le storie. Le composizioni sono molto semplificate (c’è chi parla di “stasi inventiva” del maestro), ed è la disposizione delle figure a dare il senso della profondità spaziale come nel caso delle Esequie di San Francesco.

Più notevole è però la resa delle emozioni con gesti eloquenti, come quelli dei confratelli che si disperano davanti alla salma distesa, con gesti ed espressioni incredibilmente realistici.

Sull’altare della Cappella Baroncelli (poi affrescata da Taddeo Gaddi) è situato il Polittico databile al 1328, mancante della cuspide che si trova nella Timken Art Gallery di San Diego (California), mentre la cornice originale è stata sostituita da una quattrocentesca.

Il soggetto rappresentato è l’ Incoronazione della Vergine attorniata da un’affollata Gloria di Angeli e Santi.

Il ricorso agli aiuti per l’esecuzione è ampio, c’è un accentuato gusto scenografico e cromatico creato da un’infinità di tinte finissime, ma minore profondità visto che lo spazio è riempito di figure che sono varie sia per le tipologie dei volti che per le espressioni.

Di questo periodo sono conservate molte altre tavole giottesche, spesso parti di polittici smembrati, nei quali si presenta sempre il problema dell’autografia che non è mai sicura.

Una delle più dibattute in questo senso è la Croce dipinta di San Felice di Piazza.

Il Polittico di Santa Reparata è attribuito al Maestro con la collaborazione del Parente di Giotto, il Santo Stefano della Collezione Horne di Firenze è probabilmente opera autografa e viene associata come resto di un’unica opera a due frammenti: il San Giovanni Evangelista e il San Lorenzo entrambi del Museo Jacquemart-André di Chalis (Francia) e la bellissima Madonna col Bambino della National Gallery di Washington.

In vari musei sono sparse anche tavolette di piccole dimensioni: la Natività e Adorazione dei Magi del Metropolitan Museum of Art di New York (simile alle scene di Assisi e Padova), la Presentazione di Gesù al Tempio (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum), l’Ultima Cena, Crocifissione e Discesa al Limbo della Alte Pinakothek di Monaco, la Deposizione della Collezione Berenson a Firenze e la Pentecoste (National Gallery di Londra), che secondo lo storico Ferdinando Bologna faceva parte di un polittico ricordato dal Vasari a Sansepolcro.

Il 1320 è l’anno del Polittico Stefaneschi (Musei Vaticani), commissionato per l’altare maggiore della Basilica di San Pietro dal cardinale Jacopo Stefaneschi, che incaricò Giotto anche di decorare la tribuna dell’abside di San Pietro con un ciclo di affreschi perduto nel rifacimento del XVI secolo.

Il polittico venne ideato dal maestro, ma dipinto insieme agli aiuti, ed è caratterizzato da una grande varietà cromatica a scopo decorativo; l’importanza del luogo a cui era destinata imponeva l’uso del fondo oro dal quale le figure monumentali si stagliano con grande sicurezza.

Dipinto su entrambi i lati rappresenta sul verso il Cristo in trono con i martiri di San Pietro e di San Paolo (simboli della Chiesa stessa), sul recto San Pietro in Trono, negli scomparti e nelle predelle la Vergine col bambino in Trono con diverse figure di Santi e Apostoli.

Secondo Vasari, Giotto sarebbe rimasto a Roma sei anni, eseguendo poi anche commissioni in molte altre città italiane, fino alle sede Papale di Avignone.

Il biografo aretino citò anche opere non giottesche, ma comunque descrisse un pittore moderno, impegnato su diversi fronti e circondato da molti aiuti.

In seguito tornò a Firenze, dove affrescò la già menzionata Cappella Bardi.

Poco prima della sua partenza da Firenze nel 1327, l’artista si iscrisse per la prima volta all’Arte dei Medici e Speziali insieme agli allievi più fedeli Bernardo Daddi e Taddeo Gaddi che lo seguirono nelle ultime imprese.

Napoli Nel 1328, dopo aver terminato il Polittico Baroncelli, venne chiamato dal re Roberto d’Angiò a Napoli e vi rimase fino al 1333, insieme alla nutrita bottega.

Il Re lo nominò “famigliare” e “primo pittore di corte e nostro fedele” (1333), ovvero pittore di corte, a testimoniare l’enorme considerazione che Giotto aveva ormai raggiunto.

Gli assegnò anche uno stipendio annuo.

La sua opera è molto ben documentata (ne rimane il contratto, utilissimo per conoscere come era strutturato il lavoro nella sua bottega), ma a Napoli rimane oggi molto poco dei suoi lavori: un frammento di affresco raffigurante la Lamentazione sul Cristo Morto in Santa Chiara e le figure di Uomini Illustri dipinte negli strombi delle finestre della Cappella di Santa Barbara in Castelnuovo, che per disomogeneità stilistiche sono attribuibili ai suoi allievi.

Molti di questi divennero affermati maestri a loro volta diffondendo e rinnovando il suo stile nei decenni successivi (Parente di Giotto, Maso di Banco, Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi).

La sua presenza a Napoli fu importante per la formazione dei pittori locali, come il Maestro di Giovanni Barrile, Roberto d’Oderisio e Pietro Orimina.

A Firenze, intanto, agiva come procuratore del padre il figlio Francesco, che venne immatricolato nel 1341 nell’arte dei Medici e Speziali.

Dopo il 1333 si recò a Bologna, dove rimane il Polittico firmato proveniente dalla chiesa di Santa Maria degli Angeli, su fondo oro, con lo scomparto centrale raffigurante la Madonna in Trono e sui laterali San Pietro, l’Arcangelo Gabriele, Michele Arcangelo e San Paolo, tutte figure solide, come consuetudine in questa fase ultima della sua attività, dai panneggi fortemente chiaroscurati, dai colori brillanti e con un linguaggio che lo avvicina alla cultura figurativa padana come nella figura di Michele Arcangelo che ricorda gli angeli di Guariento.

Non resta traccia, invece, della presunta decorazione della Rocca di Galliera del legato pontificio Bertrando del Poggetto, ripetutamente distrutta dai bolognesi.

Opere tarde Sulla scia di queste considerazioni è possibile collocare nella fase ultima della sua carriera altri pezzi erratici come: la Crocifissione di Strasburgo (Museo Civico) e quella della Gemäldegalerie di Berlino.

Trascorse gli ultimi anni lavorando anche come architetto, quasi sempre a Firenze dove è nominato il 12 aprile del 1334 Capomaestro dell’Opera di Santa Reparata (cioè dei cantieri aperti in piazza del Duomo) e soprintendente delle opere pubbliche del Comune.

Per questo incarico percepiva uno stipendio annuo di cento fiorini.

Secondo il Giovanni Villani cominciò il 18 luglio dello stesso anno il lavoro di fondazione del Campanile del Duomo che diresse fino alla costruzione dell’ordine inferiore con i bassorilievi.

Prima del 1337, data della morte, andò a Milano presso Azzo Visconti, ma le opere di questa fase sono tutte scomparse.

Rimase però traccia della sua presenza soprattutto nell’influenza esercitata sui pittori lombardi del Trecento, come la Crocifissione della chiesa di San Gottardo in Corte.

L’ultima opera fiorentina terminata dagli aiuti è la Cappella del Podestà del Bargello, dove è presente un ciclo di affreschi, oggi in cattivo stato di conservazione (anche per errati restauri ottocenteschi), che raffigura Storie della Maddalena ed Il Giudizio Universale.

In questo ciclo è famoso il più antico ritratto di Dante Alighieri, dipinto senza il tradizionale naso aquilino.

Morì l’8 gennaio del 1337 (il Villani riporta la data della morte avvenuta alla fine del 1336 secondo il calendario fiorentino) e venne sepolto in Santa Reparata con una cerimonia solenne a spese del Comune.

LUCA SIGNORELLI

download (5) Nel 1450 nasce LUCA SIGNORELLI.

 Allievo di Piero della Francesca, subì poi l’influenza di Bartolomeo della Gatta, attivo negli anni ’70 fra Arezzo e Cortona.

 Fu pittore eccentrico, talvolta perfino surreale e grottesco.

 Si fece prestare molti soldi da Michelangelo, che non potè mai restituire.

 Visse una parte degli gli ultimi anni ad Arezzo presso la casa dei Vasari, suoi parenti.

 Incitò il padre di Giorgio, che aveva 8 anni, a coltivare la sua attitudine al disegno. Gli regalò un diaspro da portare al collo, perchè gli cessassero le  frequenti epistassi.

 1472 affresca la cappella di S.Lorenzo ad Arezzo ed abita nella casa dello zio Lazzaro Vasari

 1482 Inizia a dipingere nella Cappella Sistina

1484 dipinge la madonna e il bambino tra i Santi Onofrio, Ercolano, Giovanni Battista, Stefano e due angeli. Ora nel museo del duomo di Perugia

1488 dipinge una Madonna con due Profeti, oggi agli Uffizi.

1491 A Volterra dipinge una Annunciazione nel duomo e una Madonna col Bambino, sei santi e due angeli, ora nella galleria comunale.

1496 dipinge una Natività per la chiesa di S.Francesco di Città di Castello, ora nella National Gallery di Londra. E’ firmato LUCE DECORTONA P.O.

1497 affresca 10 Storie di S.Benedetto a Monte Oliveto Maggiore, completate dal Sodoma con altre 28 Storie.

1498 dipinge un S.Sebastiano per la chiesa di S.Domenico di Citta’ di Castello, oggi nella locale Pinacoteca Comunale. Reca l’iscrizione THOMAS DE BRONZINIS ET FRANCESCA UXOR FIERI FEC. 1498

1498 Per la chiesa di S.Agostino di Siena dipinge un polittico con i Santi Caterina da Siena, Maria Maddalena, Girolamo, Agostino, Caterina d’Alessandria e Antonio, oggi nei musei di Berlino. La predella e’ dispersa fra la National Gall. di Dublino, la coll. Maxwell in Scozia e il Massachussets.

1498 Per la chiesa di S.Agostino di Siena, Luca Signorelli dipinge un polittico con i Santi Caterina da Siena, Maria Maddalena, Girolamo, Agostino, Caterina d’Alessandria e Antonio, oggi nei musei di Berlino. La predella e’ dispersa fra la National Gall. di Dublino, la coll. Maxwell in Scozia e il Massachussets.

1498 Per la chiesa di S.Agostino di Siena, Luca Signorelli dipinge un polittico con i Santi Caterina da Siena, Maria Maddalena, Girolamo, Agostino, Caterina d’Alessandria e Antonio, oggi nei musei di Berlino. La predella e’ dispersa fra la National Gall. di Dublino, la coll. Maxwell in Scozia e il Massachussets.

5.4.1499 viene incaricato di terminare il Giudizio Universale nella volta della cappella di S.Brizio nel duomo di Orvieto, lasciata incompiuta dal Beato Angelico

1502 dipinge l’Orazione nell’orto, la Cattura, la Flagellazione. Reca l’iscrizione LUCAS AEGIDII SIGNORELLI CORTHONENSIIS MDII. Ora nel Museo Diocesano di Cortona

1502 affresca un Cristo morto con le Marie sopra la cappella del Sacramento a Castiglione.

1507 dipinge un grande polittico in S.Medardo a Arcevia

1512 dipinge la Comunione degli Apostoli per mano di Cristo, dove si vede Giuda che nasconde l’ostia nella scarsella. E’ firmato LUCAS SIGNORELLIUS CORYTHONENSIS PINGEBAT. MDXII. Ora nel Museo Diocesano di Cortona.

25.3.1518 dipinge una tavola per S.Margherita di Arezzo, ora nella Pinacoteca di Arezzo

19.9.1519 dipinge un quadro, oggi nella Pinacoteca di Arezzo. La predella con Ester e Assuero e Tre Apparizioni di S.Girolamo e’ nella National Gall. di Londra.

16.10.1523 Signorelli muore

BRACCIO DA MONTONE

Andrea Braccio Fortebraccio, nasce da Oddone e da Giacoma Montemelini il 1 luglio 1368.

bracciodamontoneNon si sa perché avesse cambiato il nome in quello di Braccio, forse in ricordo dell’antenato Braccio I. La famiglia Fortebracci è originaria di Montone, non ha avuto origine da Perugia benché fosse nobile e lì avesse casa, secondo il costume dell’epoca.

Il padre di Braccio, Oddone avendo saputo dagli astrologhi che suo figlio sarebbe potuto diventare il più grande e valoroso soldato dell’età sua non mancò di fare la sua parte trovandogli maestri che l’indirizzassero ad apprendere non solamente le buone letture ed ogni esercizio cavalleresco.

Così il giovane Fortebraccio si esercitava di continuo a correre a saltare a cavalcare ed in tale esercizio riusciva ottimamente.

Gli avvenimenti cittadini che si svolsero durante la sua adolescenza ed i personaggi che colpirono la fantasia del piccolo e poi del giovane Andrea Braccio, furono il banco di prova nel quale si forgiò il suo carattere, per eredità di sangue, audace, combattivo, indipendente, attento, tenacemente legato anche e soprattutto per i quotidiani ammaestramenti verso la parte della quale dovrà essere un giorno guida.

I Montemelini infatti, si distinguevano per le loro turbolenze, e nelle frequenti contese cittadine compivano vendette e sfogavano rancori.

In questo ambiente familiare Andrea Braccio crebbe, ed il suo carattere si dimostrò subito, quando represse in Montone una congiura contro la sua famiglia, durante la quale venne ucciso un tifernate. Perugia reclamò la punizione dei responsabili e fissò una taglia sulla loro testa; il giovane Braccio su consiglio dei parenti, per sfuggire alla giustizia si rifugiò in territorio perugino per poi recarsi al campo del Conte di Montefeltro, dove fu ricevuto con grande amore.

Ma in lui cresceva il desiderio di gloria e si gettò nella battaglia di Fossombrone con tale impeto da esser mortalmente ferito in diverse parti del corpo, e maggiormente ad una gamba tanto che rimase claudicante per il resto della sua vita. Sull’aspetto fisico di Braccio il Giobbi così lo descrive: ..Egli era più che di mediocre statura, il viso lungo e sparso alquanto di rossore che lo rendea maestoso.

Non avea gli occhi negri, ma vivaci e nello stesso tempo pieni d’allegrezza, a cui corrispondevano tutte le altre membra, eccetto quelle che erano restate deformi dalle cicatrici.

D’aspetto ora piacevole,ora severo, secondo che richiedeva il tempo, ma sempre di maniera signorile; gli stessi nemici confessavano che egli, o in piedi, o a sedere, qualunque fosse il numero di persone che non l’avessero mai veduto, sarebbe stato subito riconosciuto per principale di tutti…

La sua vita privata, come quella dei personaggi di questo periodo, rimane, tuttavia velata di mistero.

Ciò si deve al fatto che essi non possono avere una famiglia, troppo aleatorio il destino che li accompagna.

Chi segue il condottiero, invece è la concubina. Non esiste differenza tra i figli naturali e quelli legittimi.Nemmeno della prima moglie, Elisabetta degli Armanni, sposata nel 1392, si hanno tante notizie.

Tutto resta avvolto nell’ombra circa come e dove visse.La figura femminile in quel tempo non ha troppo valore, tuttavia lo riacquista in termini politico-diplomatici, o procreativi.

Solo nel 1419 si dà notizia della morte di “Betta” e Braccio, in lotta contro Martino V non può partecipare al funerale.

Nei ventisette anni di matrimonio “Betta” non darà alcun figlio al condottiero.

Si conoscono, invece, i figli naturali, l’unico Oddo nato nel 1409.

Braccio ebbe anche diverse figlie.

Lucrezia, Innamorata Carlotta, Ultima tutte maritate in nobili famiglie.

Nulla si sa della madre e/o delle madri delle altre figlie di Braccio, forse non si poteva trovarle o enumerarle.

Rimasto vedovo e senza figli legittimi, Braccio sposò Nicola Varano, in nome dell’amicizia con il fratello di questa, conte di Camerino e per la costruzione di solide e future alleanze.

Si ricorda il ricco corteo che da S. Maria degli Angeli, presso Assisi, si dirigeva alla volta di Perugia; la sposa era contornata da 100 nobildonne della sua città e ben settanta damigelle.

La cavalcata degli sposi era aperta da sessanta trombetti che percorsero le vie di Perugia sotto una pioggia di fiori, pallii appesi alle finestre e vasi d’argento in esposizione.

Solamente dopo nove mesi, nasce l’agognato erede, Carlo.

Gli abitanti di Città di castello, gli inviarono i Magistrati e donarono in segno di giubilo, vino pinocchiate ed altri generi commestibili.

Nel 1416, Braccio è Signore di Perugia amata città che accolse i suoi genitori, e questo spinse il Montonese a non trasformare mai il dominio in tirannide, al contrario, dava prova di saper amministrare con grande saggezza e lungimiranza accingendosi ben presto a realizzare grandi ed importanti opere, mostrando così anche una vocazione da “ bravo ingegnere”.

Le eleganti Logge che portano il suo nome e sulle quali è ancora visibile lo stemma della sua casata, erano luogo nel quale trovavano riparo i numerosissimi mercanti che con l’arte del commercio rendevano sempre più fiorente la città.

Le unità di misura, ancora visibili, incise su pietra e legittimate dal Comune di Perugia, testimoniano che quel luogo era “giuridicamente legittimato” alla compravendita delle famose “Tele Perugine” ricercate in tutta Europa.

Altre opere furono la creazione della Piazza del Sopramuro, con un’abile opera d’ingegneria si rafforzarono le antiche mura etrusche e fu creata in breve la piazza, la bonifica delle acque del Trasimeno, un emissario faceva defluire le acque che tracimavano.

L’azione politica fu senz’altro molto acuta e decisa; molti anni erano occorsi affinché Braccio potesse affrancarsi dal soldo per crearsi un proprio esercito pronto, motivato e disciplinato da regole rigorosissime.

L’idea che arrovellava la testa del Capitano era quella della creazione di uno stato dell’Italia Centrale staccato dal potere Pontificio riducendo sempre più i confini della Chiesa ed al tempo stesso divenendone egli signore.

C’è un gesto del Condottiero che non sappiamo giudicare se spregiudicato o masochista, che sembra quasi capace di cancellare tutti i suoi difetti e le crudeltà.

In battaglia, se Braccio era consapevole della superiorità numerica e di forza degli eserciti collegati, invitava il nemico, assicurando che durante il passaggio delle gole non avrebbe mai agito o assaltato, dichiarandosi così leale all’Ars Bellandi.

Questo gesto d’estrema sicurezza in sé, era dettato per alcuni da estrema tracotanza, per altri da razionalità, freddezza, estrema ponderatezza.

Il popolo vedeva in lui solo l’Eroe che sfida tutti ed ha la capacità di atterrire potenti e potentati. E’ un modello un esempio che possiede in sé e domina due elementi; la Virtù e la Fortuna.

Quest’ultima abbandona il Condottiero nel bel mezzo della battaglia dell’Aquila, dove si evidenziano tutti i limiti, del suo esercito che perde unità, si spezza.

La vita del Capitano è messa in gioco fino a perdersi, ad infrangersi, così come il suo sogno così lungamente elaborato e sofferto, attraverso una fine tessitura diplomatica.In nome di quel sogno Braccio è disposto a morire ma non ad arrendersi.

Nemmeno le due scomuniche furono sufficienti a fargli rivedere le posizioni assunte.

Tutto si consuma nel campo degli aquilani, Braccio ferito, si lascia morire, per alcuni, viene ucciso da altri; il suo corpo incalcinato fu fatto trasportare a Roma e buttato dinanzi alla Porta di san Lorenzo come la Carcassa di un animale e lì giacque per giorni e giorni, fino a quando mani pietose lo seppellirono in terreno sconsacrato, in quanto scomunicato, e fu posta una colonna simbolo della casata di Papa Martino, finalmente era vinto e sconfitto per sempre l’odiato e temuto nemico, Braccio da Montone.

BENOZZO GOZZOLI

bonizzo Benozzo Gozzoli nacque intorno al 1421 nel villaggio di Sant’Ilario a Colombano, presso la Badia a SettimoScandicci.

 Nel 1427 si trasferì con la famiglia a Firenze.

 Le ipotesi sulla sua prima formazione degli storici dell’arte risultano piuttosto discordanti: l’ipotesi più accreditata sembrerebbe quella diGiorgio  Vasari, secondo il quale, Benozzo sarebbe stato discepolo di Beato Angelico.

 Dal Vasari, oltre le poche notizie sulla vita di Benozzo, riceviamo anche il nome con cui lo conosciamo, il vero nome del pittore era i  infatti Benozzo di Lese, ribattezzato poi dal Vasari, nella seconda stesura delle Vite (1568), come Benozzo Gozzoli.

 Di fatto, si ha la certezza che ricevette una valida formazione in maturità dal maestro Angelico, ne fu infatti collaboratore a Firenze nella  decorazione del convento e della chiesa di San Marco furono eseguiti dal Gozzoli su progetto dell’Angelicola Preghiera nell’Orto, l’Uomo  dei Dolori, la Crocefissione con la Vergine e i santi CosmaGiovanni Evangelista e Pietro Martire.

 Tra il 1437 e il 1439 circa realizzò il Ratto di Elena, tavoletta ottagonale che decorava la fronte di un cassone.

Tra il 1440 e il 1445 circa eseguì la Madonna col Bambino e nove Angeli della National Gallery di Londra.

Il connubio formativo con il maestro durò ininterrottamente per un decennio, fatto salvo la parentesi 1444-1447, in cui si impegnò a lavorare alla Porta del Paradiso del Battistero di Firenze come collaboratore diLorenzo e Vittorio Ghiberti, forse gli si può attribuire il pannello con la storia di David.

Il 23 maggio del 1447 è a Roma insieme all’Angelico chiamato da Eugenio IV per la decorazione di una cappella nel palazzo Vaticano, forse quella del Sacramento, successivamente i due pittori collaborarono sotto Niccolò V per la Cappella Niccolina sempre nei palazzi vaticani, fino al giugno del 1448.

Al 1449 circa risale lo stendardo con la Madonna col Bambino per Santa Maria sopra Minerva, dove il progetto e il disegno sono forse diBeato Angelico.

Per il polittico Guidalotti dell’Angelico realizzato nel 1448 circa,Benozzo realizzò la figura di Santa Caterina d’Alessandria.

Il periodo di collaborazione e formazione alla stregua di Beato Angelicoterminò nel 1449 con la decorazione delle volte della Cappella Nuova o di San Brizio nella cattedrale di Orvieto; nelle uniche due vele della volta terminate, il Gozzoli eseguì parte delle teste dipinte nei costoloni e alcuni dei volti della vela dei Profeti.

Terminato il sodalizio con il suo maestro, nel 1450 si trasferì in Umbria ed a quell’anno risale l’Annunciazione di Narni, prima opera autonomo e firmata.

Nel 1450 circa iniziò la decorazione del monastero di San Fortunato a Montefalco: di Gozzoli sono la lunetta con Madonna col Bambino tra i Santi Francesco e Bernardino da Siena, la Madonna col Bambino e un Angelo musicante e San Fortunato in trono; per l’altare maggiore della stessa chiesa realizzo la tavola con l’Assunzione della Vergine, oggi alla Pinacoteca vaticana.

Tra il 1450 e il 1452 realizzò su commissione della Clarisse di Montefalco la tavola con Sant’Orsola angeli e Donatore (forse suor Ginevra).

Del 1452 sono gli affreschi della tribuna absidale nella chiesa di San Francesco con le Storie della vita di San Francesco, commissionati da un colto committente, teologo e predicatore Fra’ Jacopo da Montefalcodell’ordine dei Frati Minori.

La fonte iconografica è probabilmente il De conformitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Jesu di fra Bartolomeo da Pisa.

La base è formata da una fascia a girali con ritratti dei francescani famosi, le scene con le storie della vita di san Francesco sono divise in dodici riquadri su tre registri,e sulla volta i cinque santi dell’Ordine e san Francesco in gloria tra gli angeli e sull’intradosso dell’arco trionfale Francesco mostra le stimmate attorniato da dodici compagni.

Nella cappella di San Girolamo, contemporaneamente alla realizzazione degli affreschi con la vita di san Francesco, vi realizzò al centro della scena un finto polittico completamente dipinto, nel registro inferiore episodi della Vita di san Girolamo e nella lunetta Crocifissione.

Sulla fascia che divide i due registri è la scritta “costruita e dipinta…il primo giorno di novembre del 1452″.

Si trattò di uno dei primi esempi di pittura illusionistica ma anche un modo per promuovere le sue capacità.

38039_001_300Dello stesso anno è la Madonna dell’Umiltà col Bambino e i santi Francesco e Bernardino da Siena e il Donatore Fra Jacopo da Montefalco.

Sua anche l’Annunciazione, commissionata dal Cardinale Berardo Eroligià nella chiesa di San Domenico, in Narni ed ora nel Museo Eroli della stessa città.

Al centro della colonna nella parte centrale della scena si nota lo stemma del committente.

Nel 1453 le Clarisse del convento di Santa Rosa a Viterbocommissionarono a Benozzo un ciclo di affreschi con le Storie della vita di Rosa da Viterbo, distrutti nel 1632; furono però copiati da Francesco Sabatini prima di essere distrutti.

Del 1456 è la Madonna dell’Umiltà con Santi, nota come Pala della Sapienza Nuova, per il Collegio di San Gerolamo a Perugia, firmata e datata.

Nel maggio del 1459 Benozzo tornò a Firenze, dove sposò la figlia di un mercante di tessuti, da cui ebbe nove figli, fra cui Francesco e Alessio pittori; nel luglio dello stesso anno iniziò il completamento della Cappella dei Magi nel Palazzo dei Medici con il fiabesco Viaggio dei Magi, su commissione di Cosimo de’ Medici.

In realtà l’episodio evangelico fu solo un pretesto per raffigurare i successi politici della famiglia Medici e immortalare alcuni ritratti di famiglia e di importanti personalità con i quali avevano intessuto rapporti.

Al 1460 risale la Madonna col Bambino e angeli di Detroit.

Nel 1461 eseguì, prima di lasciare Firenze per San Gimignano, la Pala della Purificazione, commissionata dalla Compagnia di Santa Maria della Purificazione e di San Zenobi in San Marco di Firenze.

Tra il 1461 e il 1462 è la scena di predella con il Festino di Erode della National Gallery of Art di Washington.

Nel coro della chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano affrescò il ciclo con le Storie della vita di sant’Agostino, commissionato da fra Domenico Strambi nel 1464.

Sempre in quello stesso anno gli agostiniani decisero di far realizzare al pittore un affresco votivo con San Sebastiano intercessore a circa metà della navata centrale della chiesa.

San Gimignano era stata colpita duramente dalla peste tra il 1462 e il 1464.

Il Comune aveva già deliberato, fin dal gennaio del 1463, di far realizzare un affresco con l’immagine di San Sebastiano al’interno della Collegiata, ma nel giugno 1464 alla nuova esplosione del morbo gli agostiniani chiesero al Gozzoli di lasciare momentaneamente in sospeso la decorazione del coro per dedicarsi alla realizzazione di questo affresco votivo che risulta completato il 28 luglio 1464.

Nel 1465 il Comune di San Gimignano incaricò Benozzo Gozzoli di portare a compimento l’affresco con il San Sebastiano per il quale aveva deliberato fin dal 1463.

Il pittore lo terminò il 18 gennaio 1466, due giorni prima della festa del santo.

Realizzò anche due pale d’altare, entrambe conservate nel Museo civico della città: una Madonna col Bambino in trono, incoronta da due angeli, e i Santi Giovanni Battista, Maria Maddalena, Agostino e Marta firmata e datata 1466, dipinta per la chiesa conventuale di Maria Maddalena a San Gimignano; l’altra, Madonna dell’Umiltà tra Sant’Andrea e San Prospero, e due angeli, firmata e datata 28 agosto 1466.

Durante il soggiorno sangimignanese Benozzo si occupa anche delrestauro della Maestà (1317) di Lippo Memmi posta nell’odierna “Sala di Dante” all’interno del Palazzo Pubblico.

Il lavoro venne eseguito entro il 1467. Del 1466 è la pala d’altare della cappella Rustici in Santa Maria dell’Oro a Terni con il Matrimonio Mistico di santa Caterina.

Nel 1467 partì da San Gimignano per Pisa.

Benozzo, negli anni in cui lavorava a San Gimignano, dipinse a Certaldo con l’auto della sua bottega il Tabernacolo dei Giustiziati che originariamente si trovava lungo la via Francigena, nelle immediatevicinanze del torrente Agliena e che adesso invece, dopo lo strappo degli affreschi avvenuto negli anni ’50 del Novecento si trova nella ex chiesa dei Santi Tommaso e Prospero in Certaldo Alto, vicino alPalazzo Pretorio.

Tra i suoi collaboratori figuravano Giusto di Andreafiglio del pittore Andrea di Giusto, e Pier Francesco Fiorentino.

Nel 1467 il Gozzoli scriveva a Lorenzo il Magnifico che un altro suo collaboratore, Giovanni della Ceccanipote tra l’altro del Beato Angelico, era rinchiuso nelle carceri del Palazzo Pretorio di Certaldo, con l’accusa di aver rubato delle lenzuola dal convento in cui lungamente era stato ospitato! (molto probabilmente si trattava del convento di Sant’Agostino a San Gimignano).

Il Gozzoli chiedeva al Magnifico un intervento risolutore per evitare che il poveretto non davesse passare davanti al tabernacolo che aveva contribuito a realizzare! Altro tabernacolo del Gozzoli si può ammirare aLegoliprovincia di Pisa, nell’attuale comune di Peccioli presso lacappella di santa Caterina.

Benozzo risiedette a Legoli dal 31 maggio del 1479 all’11 gennaio del 1480.

È presumibile che il pittore abbia realizzato l’opera in quel lasso di tempo. Alla committenza del priore di Castelnuovo d’Elsa, ser Grazia di Francesco, sono legati i due tabernacoli che si conservano nel comune di Castelfiorentino: l’uno detto della Madonna della Tosse (1484) e l’altro detto della Visitazione (1490-1491); entrambe le opere hanno subito lo strappo degli affreschi e sono momentaneamente conservate nei locali della Biblioteca comunale in attesa del costruendo Museo dedicato proprio a Benozzo Gozzoli.

Al 1490 (per la lettura di una iscrizione) si fa risalire anche larealizzazione di una Santa Verdiana, conservata nel Palazzo Comunale di Castelfiorentino Nel pisano (1467 – 1495)

Nel 1467 dunque Benozzo lasciò San Gimignano per recarsi a Pisa.

In questi anni risulta che l’artista abbia aperto una bottega, come aiuto per la realizzazione degli affreschi per il Camposanto monumentale della città, commissionati nel 1468 e terminati nel 1484.

Gli affreschi sono andati quasi completamente distrutti in seguito a un bombardamento del 1944.

Tra il 1470 e il 1475 eseguì la tavola col Trionfo di san Tommaso d’Aquino del Louvre, dipinta per la Cattedrale di Pisa. Durante il citato soggiorno a Legoli (31 maggio 1479 – 11 gennaio 1480) contemporaneamente alla realizzazione del tabernacolo monumentale della cappella di Santa Caterina, Gozzolidipinse a Volterra un affresco con la Cavalcata dei Magi per la Compagnia della Vergine Maria, attigua e comunicante con il duomo della città.

L’affresco fa da fondale ad un presepio in terracotta anticamente attribuito allo scultore volterrano Zaccaria Zacchi e attualmente riferibile a maestranze fiorentine della seconda metà del Quattrocento.

Benozzo GozzoliTrionfo di san Tommaso d’Aquino, particolare,Parigi, Louvre, 1470 – 1475 Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi, Volterra, Compagnia della Vergine Maria, 1479 Gli ultimi anni Nel 1495 tornò a Firenze in seguito alla discesa di Carlo VIII in Italia e allacacciata dei Medici, suoi protettori.

Dopo alcuni mesi arrivò a Pistoia dove erano i figli Francesco, suo collaboratore, e Giovan Battista, magistrato.

Il giorno prima della sua morte i figli vendettero al cardinale Niccolò Pandolfinivescovo di Pistoia, due tavole, eseguite con la collaborazione dei figli Francesco e Alessiola Deposizione dalla Croce del Museo Horne a Firenze e la Resurrezione di Lazzaro della National Gallery of Art di Washington, in cui non v’è più traccia del decorativismo e del mondo fiabesco, ma tutto è retto da modi austeri e drammatici, modi influenzati dalla predicazione di Girolamo Savonarola.

Morì a Pistoia, forse di peste, nel 1497.

Arrivederci al prossimo articolo!

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